Alla scoperta del LaBS insieme a 8 giovani ricercatrici

Il gruppo di ricercatrici del LaBS

Al Politecnico di Milano anno dopo anno sta aumentando la presenza femminile anche nei corsi di ingegneria. E vorremmo dire: finalmente. È un segno dei tempi e un indice che gli stereotipi legati alle discipline STEM stanno cadendo uno dopo l’altro.

Noi di Frontiere volevamo proprio portarvi a conoscere giovani ricercatrici in ingegneria, che ci raccontassero come hanno vissuto il loro percorso accademico qui da noi.

Abbiamo avuto l’imbarazzo della scelta, ma siamo andati a colpo sicuro al LaBS, un cluster di laboratori del Dipartimento di Chimica che lavorano sulla meccanica delle strutture biologiche. Qui la presenza femminile è visibile, probabilmente anche per la storica predilezione delle studentesse, tra le varie ingegnerie, per quella biomedica. Ma anche questo è un preconcetto che sfateremo nel corso del racconto.

A introdurci nel laboratorio è stata la professoressa Maria Laura Costantino, a capo della sezione Artificial Organs. Ma le nostre ricercatrici provengono da un po’ tutti le anime del LaBS: Artificial Organs (organi interni, protesi valvolari, sistemi di supporto alla vita, modelli paziente specifici), 3DB&STM (3D bioprinting e meccanica dei tessuti soffici), CompBiomech (biomeccanica computazionale), MechanobiologyMeDBioMech (biomeccanica dei dispositivi medici), μBIOmechL (micro biomeccanica) e μFLUID (microdispositivi per la salute).

La nostra visita è stata anche un’occasione per mettere due generazioni di ricercatrici a confronto. Qui potete trovare il racconto che ci ha fatto Maria Laura Costantino del suo percorso professionale, tra gratificazioni e ostacoli superati.

Beatrice Belgio
Beatrice Belgio

Le ricercatrici

Ilaria Rota e Ilaria Guidetti sono le più giovani tra le dottorande in bioingegneria, sono al primo anno. Federica Potere e Francesca Danielli sono a metà del loro cammino, mentre Beatrice Belgio è al terzo anno.

Francesca Berti invece è un’assegnista postdoc, perché ha già conseguito il dottorato di ricerca, nel suo caso in ingegneria dei materiali, ma sempre lavorando su applicazioni biomedicali.

Si sono tutte laureate in Ingegneria Biomedica, triennale e magistrale, qui al Politecnico.

Ravipati Priusha ha conseguito la laurea triennale in biologia in India, successivamente l’Erasmus Mundus Joint Master in Nano medicine for Drug Delivery in Europa, ed ora è qui al primo anno di dottorato.

Infine, Victoria Yuan, dopo essersi laureata a Stanford, è qui grazie a una borsa Fulbright.

Francesca Danielli
Francesca Danielli

Qual è stato il tuo percorso e di cosa si occupa la tua attuale ricerca?

BB: Il mio percorso nel mondo della ricerca è iniziato con la tesi magistrale che ho svolto negli Stati Uniti per otto mesi. Lì ho lavorato in due laboratori: prima alla University of Pittsburgh e poi alla University of Pennsylvania e al Children Hospital of Philadelphia, uno dei migliori ospedali pediatrici d’America.   Gli ambiti della mia attività erano la medicina rigenerativa e l’ingegneria dei tessuti che mi hanno molto appassionato, così ho deciso di proseguire con il dottorato. Adesso la mia ricerca si sta focalizzando sulla rigenerazione dei tessuti oculari e lo sviluppo di modelli in laboratorio di retina per valutare nuove terapie per il trattamento di patologie oculari, tra cui la maculopatia.

FP: Anch’io ho svolto la tesi magistrale negli USA, alla Virginia Commonwealth University (VCU) a Richmond, Virginia, dove ho studiato nuovi materiali per protesi vascolari. Una volta conseguito il titolo magistrale al Politecnico di Milano, sono poi stata assunta alla VCU come ricercatrice. Nel 2020 sono tornata in Italia e ho iniziato il dottorato qui, dove mi occupo di 3D bioprinting di costrutti tubolari, nello specifico aorta e trachea.

FB: Nel mio dottorato, durante il quale ho passato sei mesi al MIT di Boston, ho lavorato su una particolare lega a memoria di forma, il Nitinol, un materiale molto utilizzato per i dispositivi mini invasivi, come ad esempio gli stent e le valvole in ambito cardiovascolare, che vengono impiantati evitando procedure, ad esempio a cuore aperto, che hanno tempi di recupero per il paziente molto più lunghi. Il mio dottorato in ingegneria dei materiali dà un taglio abbastanza trasversale alla mia ricerca e mi consente di studiare quindi un po’ tutte le caratteristiche dei materiali impiegati in bioingegneria, sia a livello numerico che sperimentale, passando per applicazioni cliniche molto diverse tra loro, come il cardiovascolare e l’ortopedia.

FD: La mia esperienza al LaBS è iniziata con la tesi magistrale, condotta in ambito cardiovascolare sullo studio di un dispositivo in Nitinol per trattare un sito anatomico in prossimità dell’atrio sinistro (l’appendice atriale sinistra) in pazienti affetti da fibrillazione atriale. Al contrario, il mio progetto di dottorato riguarda un ambito totalmente diverso, quello ortopedico, in particolare lo studio di endoprotesi prodotte mediante stampa 3D, come per esempio quella di bacino o di caviglia. Nonostante i diversi campi applicativi, entrambi i progetti hanno previsto e prevedono un approccio sia sperimentale sia numerico. Ad oggi, lo studio numerico si è rivelato essere uno strumento di fondamentale importanza, ad esempio nel supportare il chirurgo in fase preoperatoria nella scelta del dispositivo e della modalità di impianto ottimali.

VY: Ho studiato biomedica computazionale a Stanford e per la mia tesi di laurea mi sono concentrata sullo studio del Berlin Heart EXCOR, che è un dispositivo di assistenza ventricolare per neonati e bambini con insufficienza cardiaca. Ora continuo la mia ricerca sul Berlin Heart EXCOR qui. Per nove mesi lavorerò su un mix di metodi sperimentali e computazionali per capire come possiamo usarlo per supportare la circolazione di un bambino che nasce con un solo ventricolo.

RP: Ho fatto la magistrale nel campo della nano medicina, cercando di progettare e sintetizzare veicoli per la somministrazione di farmaci. Il mio dottorato, è nell’ambito del progetto Marie Skłodowska-Curie DECODE, dove sto lavorando alla creazione di placche aterosclerotiche artificiali nelle arterie, per testare le prestazioni o l’efficacia dei palloncini rivestiti di farmaci che vengono normalmente utilizzati negli ospedali per trattare l’aterosclerosi.

IG: In questo momento lavoro allo sviluppo di un dispositivo di assistenza ventricolare per la parte destra del cuore. Attualmente stiamo utilizzando dei metodi computazionali per ottimizzare il design di questo dispositivo, per poi valutare il grado di emolisi, ovvero il danneggiamento ematico dei globuli rossi. Successivamente valideremo questo modello tramite test sperimentali.

IR: Il mio dottorato riguarda la progettazione di dispositivi paziente-specifici in ambito maxillo-facciale. In particolar modo il mio progetto è relativo alla progettazione e all’ottimizzazione di spessori e forma, ad esempio di placche di osteosintesi, che servono per favorire la riparazione di fratture ossee. Un altro aspetto su cui si concentra la mia ricerca è lo studio della degradazione di placche in metallo biodegradabile, come quelle in lega di magnesio, tramite simulazione numerica.

Federica Potere
Federica Potere

Perché avete scelto questa strada? C’è un aspetto che vi attrae particolarmente nella vostra ricerca?

BB: Ero indecisa tra medicina e ingegneria biomedica, ma ho scelto la seconda perché sono convinta che la ricerca sia alla base dello sviluppo di nuove terapie che possono salvare la vita a più pazienti. È una visione idealizzata, non è così facile arrivare a questi risultati, però questa è stata la spinta. Mi piace cercare soluzioni ai problemi reali delle persone.

FP: La medicina ha sempre fatto parte della mia quotidianità: i miei genitori e mio fratello sono medici. Fin da piccola mi ha attratto l’idea che il mio studio e la mia attività potessero migliorare la qualità di vita e la salute delle persone. Durante i miei studi ho sviluppato l’interesse per le discipline dell’area matematico-tecnologica che studiano e propongono modi innovativi per risolvere problemi: ingegneria biomedica mi è sembrata il connubio perfetto che racchiudesse tutte le scienze. Ho scelto l’ambito cardiovascolare, perché mi affascina molto il cuore come organo, il concetto del sangue che circola e dà nutrimento a tutto il corpo.

FD: Le mie opzioni erano ingegneria biomedica, medicina, oppure filosofia, che mi appassionava per il suo grado di astrazione e il desiderio (forse utopico?) di trovar risposta a domande “esistenziali”. Alla fine, riflettendo sugli sbocchi lavorativi, ho abbandonato quest’ultima idea. Avevo tentato inizialmente il test di medicina, fallendolo. Col senno di poi, questa “sconfitta” risultò benefica. Credo che il lavoro del medico presupponga di instaurare un rapporto empatico con il paziente al fine di individuarne la miglior cura. Questo aspetto risultava incompatibile con il mio carattere introverso. Sembrerà scontato, ma ad oggi la scelta di ingegneria biomedica non mi ha ancora dato alcun motivo di rimpianto, altrimenti non avrei scelto di perseguire il dottorato di ricerca in bioingegneria.

RP: Al liceo ho conosciuto la biologia molecolare, e mi ha interessato molto come un piccolo cambiamento in una molecola possa avere ripercussioni sull’intera persona.  Ho scelto la biotecnologia per studiare come le tecnologie possano cambiare gli esseri umani. Sono sempre stata curiosa, e penso sia sempre una bella sensazione essere in grado di avere un impatto sulla vita delle persone. È esattamente ciò che voglio fare, attraverso il mio percorso che parte da biologa, passando per la nano medicina e ora all’ingegneria.

FB: Ero molto indecisa tra ingegneria meccanica e ingegneria biomedica, scegliendo sicuramente senza troppa consapevolezza. Alla fine del liceo non avevo ben chiaro cosa fosse un bioingegnere, e invece strada facendo mi sono accorta che era quello che faceva per me: mettere insieme genio e creatività, ma anche aiutare il prossimo e fare innovazione a 360 gradi. Da sempre ho amato le materie scientifiche; mi definisco una persona creativa, quindi nella progettazione mi ritrovo completamente. 

VY: Ho scelto il calcolo biomedico perché mi è sempre piaciuta la matematica. Fin da quando ero bambina, mio padre faceva giochi matematici con me. Mi sono resa conto che ci sono molte applicazioni della matematica, specialmente alla biologia, al sistema cardiovascolare. È anche un modo per aiutare altre persone, per questo ho scelto di studiare cardiologia infantile. A Stanford ho lavorato in ospedale dove ho incontrato molte famiglie di bambini affetti da malattie cardiache. Questo mi ha fatto desiderare di approfondire nuove tecnologie in questo campo, ed è questo che mi ha portato al Politecnico. Dopo la borsa di studio Fulbright, tornerò negli Stati Uniti continuando con la medicina e l’ingegneria.

IG: Durante il quarto anno di liceo scientifico ho iniziato ad informarmi riguardo ai vari indirizzi universitari, ma non avevo le idee chiare. Per fortuna all’Open Day al Politecnico ho scoperto l’esistenza dell’ingegneria biomedica, che prima ignoravo. Mi aveva colpita soprattutto per il legame con lo sport, dal momento che al tempo praticavo assiduamente judo. Per presentarci la materia, ci avevano fatto vedere alcune protesi sportive, che mi hanno decisamente sorpresa e convinta. Durante il mio percorso ho poi iniziato a lavorare in ambito cardiovascolare grazie alle mie tesi e a vari progetti. Quello che mi piace tanto, è proprio la ricerca in sé, scoprire sempre nuove cose e non arrendersi di fronte alle difficoltà, perché nel momento in cui trovi la soluzione provi tanta soddisfazione.

IR: Al liceo mi piacevano molto matematica, fisica e biologia, così ho tentato il test di ingresso in quarta superiore. Tra le preferenze di ingegneria non avevo messo biomedica, ma elettronica ed informatica. In quinta superiore avevo scritto la tesina sull’applicazione della matematica, in particolare delle equazioni differenziali, nelle scienze mediche e biologiche. Da lì ho capito che mi piaceva l’ingegneria applicata all’ambito medico e biologico, per cui alla fine mi sono iscritta a ingegneria biomedica e sono molto contenta di questa scelta.

Francesca Berti
Francesca Berti

Avete incontrato qualche difficoltà nel vostro percorso? Un momento nella vostra carriera universitaria in cui vi siete dette: “Basta, mollo tutto”?

BB: No, non mi è mai passato per la mente. Momenti difficili? Sì, in realtà non proprio durante il dottorato, più durante la tesi. Ho vissuto un periodo non facilissimo, in cui per un evento inaspettato mi è stato chiesto di aiutare temporaneamente nell’organizzare da zero un nuovo laboratorio. Inizialmente questa cosa mi ha un po’ destabilizzato, ma a posteriori è stata un’occasione per mettermi alla prova e acquisire nuove competenze diverse da quelle del normale tesista. L’amore per questo lavoro e la passione che ci metto mi hanno aiutato a valorizzare anche questa occasione, rafforzando la mia volontà di procedere con un dottorato.

FP: Non ho mai pensato di mollare: certo, da studente ci possono essere momenti di sconforto, ma hanno rappresentato la molla per progredire e fare il salto di qualità. Cerco di trovare gli aspetti positivi anche nelle difficoltà, per crescere e migliorare. La ricerca è una costante sfida tra te stesso e lo stato dell’arte: è proprio questo che mi piace. Anche se spesso il percorso è in salita, ti permette di raggiungere e realizzare quello che hai immaginato e progettato con lo studio.

IR: Sinceramente nemmeno io ho pensato: “Mollo tutto, mollo ingegneria”, perché comunque è un percorso che sento proprio mio, nelle mie corde.

FD: Mollare tutto? Solo al primo esame della mia carriera universitaria. Se ripensassi a quel momento, mi verrebbe solo da ridere. Durante il periodo tra la laurea magistrale e l’inizio del dottorato, tra dicembre 2019 e settembre 2020, complice la situazione pandemica, ero preoccupata per il mio futuro lavorativo. Ero convinta di voler fare il dottorato, ma cosa sarebbe successo se non mi avessero preso? Avrei iniziato a cercare lavoro in una situazione critica come durante le prime fasi della pandemia? Lì mi sono fermata a riflettere su un eventuale piano B.

RP: Smettere? Direi di no. Di solito mi annoio delle cose molto velocemente, questa è la verità. Ma penso che la professione e la ricerca siano un po’ diverse: sono più adatte a me, perché anche se mi annoio, c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.

FB: Non ho mai pensato di mollare durante la laurea. Anzi, il mio perfezionismo mi ha sempre portata a vivere le difficoltà come una sfida con me stessa. Durante il dottorato, ho avuto più di un momento di crisi, probabilmente per il cambio da ingegneria biomedica a ingegneria dei materiali. Mi sono rimessa in gioco, ho dovuto studiare delle materie che non avevo mai visto, a un livello di competizione molto più alto, perché nel dottorato ti è già richiesto di sapere quasi tutto. Per fortuna poi sono partita per Boston e ogni dubbio è svanito.

VY: Non ho mai pensato di abbandonare la ricerca, perché per me la ricerca ti permette di farti così tante domande diverse. Puoi sempre esplorare nuove idee e nuove situazioni e aiutare le persone, specialmente con l’ingegneria biomedica. Ho riflettuto se tornare negli Stati Uniti per proseguire la mia formazione attraverso una laurea in medicina combinata ad un dottorato in ingegneria biomedica: si tratterebbe di ben 14 anni di formazione! Ho calcolato che avrei iniziato a lavorare quando avrò circa 40 anni, e non sapevo se volessi farlo. Ma ogni volta che penso di non intraprendere medicina, mi vengono in mente tutti i bambini, le famiglie e i pazienti che ho incontrato quando facevo volontariato con la clinica, e penso sia così bello poter aiutare a migliorare le vite di altre persone. Forse dovrò aspettare fino ai 40 anni per avere un lavoro definitivo, ma fino ad allora potrò aiutare quante più persone possibile lungo il cammino.

IG: Da studentessa non ho mai avvertito il bisogno di dover cambiare quello che stavo facendo. Anzi, probabilmente in tutte le crisi che ho avuto in quel periodo, l’unica cosa certa era che mi piaceva quello che stavo studiando. Il LaBS, dove ho avuto la fortuna di iniziare questo percorso, è un ambiente che ti aiuta molto. Siamo in tanti dottorandi e ricercatori giovani con cui confrontarci: sai di non essere sola, conosci persone più avanti di te nel percorso che hanno passato le stesse paure e le hanno superate. Anche riguardo ai professori che ti seguono, hai sempre qualcuno in grado di guidarti e supportarti quando hai bisogno.

Ravipati Priusha
Ravipati Priusha

Cosa ne pensi del Gender Gap nell’ambito universitario? Come ti sei trovata, come donna nell’ambito della ricerca, rispetto ai tuoi colleghi uomini?

BB: Partiamo dal fatto che io ho la fortuna di avere due “capi” donna e una tutor donna; tre esempi positivi di professoresse, ricercatrici e donne eccezionali, modelli da seguire che mi ricordano che ce la si può fare.

Capita purtroppo ancora troppo spesso di sentirsi chiamare “signorina”, piuttosto che ingegnere, ed è sminuente.  Nei nostri laboratori e corsi di biomedica, la presenza femminile è sempre più numerosa, quindi il gender gap è meno evidente. Però, quando ci spostiamo in ambiti diversi, ad esempio nella meccanica, che è ancora a prevalenza maschile, si avvertono una diversa considerazione e un atteggiamento paternalistico da parte di alcuni interlocutori maschili.

IR: Ci sono difficoltà anche durante il percorso, magari compagni di università con atteggiamenti maschilisti che ogni tanto pensano che le donne non siano in grado di fare certe cose. Però fortunatamente sono pochi.

Un’altra cosa è che quando sei ai primi anni di università, la maggior parte dei professori che incontri sono uomini; poi pian piano inizi a vedere alcune professoresse. In realtà adesso le cose stanno cambiando: nel mio corso eravamo quasi metà donne e metà uomini, mentre in altri corsi il rapporto è ancora molto sproporzionato.

IG: Effettivamente, ripensando soprattutto alla triennale, mi ricordo quasi solo facce di uomini. Un po’ questo scoraggia, soprattutto quando poi inizi a considerare cosa vuoi fare dopo la laurea e il dottorato.

FP: Ho la fortuna di lavorare in un team di donne; infatti, le mie professoresse di riferimento sono donne e ho il loro bell’esempio da seguire. Sicuramente c’è differenza di atteggiamento verso una donna. È più difficile affermarsi anche nel pensiero, è come se ogni concetto da te espresso debba essere dimostrato, e l’interlocutore debba essere convinto. Ciò accade prevalentemente in posti storicamente maschili, come le officine, dove ti trattano con condiscendenza. Possono sembrare sciocchezze, ma nella vita quotidiana devi comunque affrontarle, e pesano.

FD: In prima persona non ho mai sentito questa differenza di genere, se non in un’occasione. Con delle colleghe dovevamo fare delle prove sperimentali in un laboratorio.  Il tecnico, responsabile del montaggio di tutto il setup sperimentale, non si è posto bene nei nostri confronti, rispondendo in modo brusco alle nostre domande ed osservazioni.

FB: Siamo sicure che con dei ragazzi non si sarebbe mai permesso un comportamento del genere. Poi io sono una ricercatrice post-doc, e quindi mi sono permessa di fargli notare il suo atteggiamento, però quando sei ancora dottoranda sei forse più insicura e non sai mai come reagire.

Ai tempi, anch’io ho avuto una bruttissima esperienza a un orale di un corso facoltativo in cui eravamo in fila in due, un ragazzo ed io. A lui è stato chiesto appena nome e cognome, e gli è stato dato 30. Io partivo da 28, ho fatto un’ora di orale, e quando mi sono fermata per prendere fiato mi è stato detto. “Signorina, su queste cose non si può avere esitazione. Ringrazi che le lascio 28 e vada”.

Poi, una come me va come un treno e non se ne cura. Per altre persone, non necessariamente perché più deboli, ma proprio perché all’inizio della propria carriera, può risultare difficile decidere come interfacciarsi con queste figure. È molto scoraggiante, perché non capisci mai se è perché sei donna o perché sei tu. Ed è brutto avere questo dubbio.

FD: Anche questi miti che circolano su ingegneria meccanica come corso di studi prettamente maschile… Le percentuali femminili stanno crescendo, e la diffusione di certi stereotipi scoraggia una donna che vuole intraprendere questo percorso.

RP: Non ho sperimentato personalmente alcun gender gap nei luoghi in cui finora sono stata, probabilmente perché vengo da un background non ingegneristico, dove ho sempre visto più donne che uomini nei laboratori.

VY: Quando lavoravo in campo medico, le quote erano realisticamente 50/50. Durante i corsi di informatica o di ingegneria elettrica, invece, la maggior parte degli studenti erano uomini, molti degli assistenti erano uomini, così come la maggior parte dei professori. Man mano che i corsi diventavano più avanzati, il numero di donne era sempre più piccolo. Quello che mi ha aiutato è stato avere molte donne che per me sono state dei modelli. La mia tutor a Stanford, la professoressa Marsden, è una donna, ed è anche una madre e una moglie, e gestisce un laboratorio di grande successo. È stata una grande mentore per me, e mi ha sempre spronata a fare ingegneria indipendentemente dal proprio genere.

Victoria Yuan
Victoria Yuan

Come ti vedi nel futuro?

BB: La speranza è quella di rimanere qui al Politecnico, ambiente all’avanguardia e di frontiera, continuando a fare ricerca in un ruolo sempre più di crescita e di maggiore responsabilità alla pari dei miei colleghi uomini.

IR: Non sono ancora sicura. Ho iniziato il dottorato da poco, quindi sono certa che per tre anni sarò qui, e poi si vedrà. Penso che col tempo capirò bene cosa vorrò fare veramente, se vorrò rimanere in università oppure andare a lavorare in un’azienda, in Italia o all’estero.

FP: Sicuramente mi piacerebbe rimanere nell’ambito della ricerca, perché ti stimola sempre a crescere, a scoprire cose nuove. Al Politecnico sarebbe perfetto, dato che è una bellissima realtà che mi ha cresciuta e formata. Mi piacerebbe poter dire, un giorno, di aver contribuito ad una scoperta e cercato di migliorare qualche aspetto che sto studiando nell’ambito della medicina rigenerativa cardiovascolare e dell’ingegneria tissutale.

FD: Su cosa fare finito il dottorato non ho ancora le idee chiare. Non ho dubbi che mi piacerebbe rimanere nella ricerca: ma in ambito accademico o in azienda? Non essendomi mai interfacciata con quest’ultima realtà, mi piacerebbe scoprire questo mondo per capire dove voler continuare.

RP: Dopo il mio dottorato di ricerca mi piacerebbe acquisire un’esperienza di lavoro in azienda, perché non ci ho mai lavorato, vorrei sapere come ci si sente. Inoltre, vorrei tornare in India, perché voglio dare vita a qualcosa lì, dove ci sono tante cose da migliorare. Da quando vivo in Europa, vedo chiaramente cosa manca nel mio paese in termini di strutture mediche, in termini di ricerca e altro.

VY: A parte la lunga formazione di cui dicevo prima per diventare medico, come studentessa di dottorato mi piacerebbe diventare docente di biologia computazionale o ingegneria, perché vorrei avere il mio laboratorio e creare nuove tecnologie mediche per i bambini, oltre che fare da mentore ad altri studenti, in particolare donne, assicurandomi che ci siano sempre più donne nel campo dell’ingegneria. Vedo il mio futuro negli Stati Uniti, anche se spero di poter avere ancora molte collaborazioni internazionali, perché penso che la ricerca sia migliore quando si lavora tutti insieme a livello globale.

FB: Io in realtà ho iniziato il dottorato con la chiara idea di diventare una professoressa universitaria. Quindi il mio sogno sarebbe quello di rimanere nella ricerca accademica, dato che la componente di insegnamento è qualcosa che mi appassiona tantissimo. Ho avuto la fortuna di poter essere esercitatrice dal primo anno di dottorato, quindi andare da subito in classe: il coinvolgimento con gli studenti è forte, e se a qualcuno spaventa, a me, invece, stimola moltissimo. L’obiettivo è quello, sì di realizzarmi come persona, ma attraverso questo dialogo con gli studenti e le studentesse, trasmettendo le mie conoscenze e non “tenendole tutte per me”. Vorrei in questo poter essere una sorta di role model, il che darebbe a me una gratificazione infinita e spero, allo stesso tempo, forte motivazione ai miei studenti e studentesse.

IG: Oggi ho fatto la mia prima esercitazione, quindi mi sento molto vicina a ciò che Francesca stava dicendo, perché è una cosa che mi ha sempre attirato, la parte dell’insegnamento. Non so se poi effettivamente sarà quello che vorrò fare, sicuramente mi coinvolge molto, sia come lo viviamo qua in Italia, sia come ho avuto l’occasione di vederlo all’estero. Sarebbe bello riuscire a integrare alcuni elementi dei vari metodi con cui viene insegnato nelle diverse università, con i loro pro e contro. Nella ricerca, la mia speranza è quella di vedere il dispositivo su cui sto lavorando effettivamente finito, funzionante e utilizzabile. Sarebbe sicuramente una grandissima soddisfazione.

Ilaria Guidetti
Ilaria Guidetti
Condividi